Ma, in fondo, quale Paese, quale realtà non è complessa, contraddittoria, mutevole? In alcuni casi, è il racconto (la “narrazione”, che termine abusato! Eppure non riesco ancora a disprezzarlo) ad essere semplice o banale, non ciò che viene raccontato. E la solita questione della distanza tra ciò che viviamo e ciò che pensiamo e diciamo di aver vissuto.
Dove finisce davvero la realtà? Dove inizia il giudizio soggettivo, influenzato magari da circostanze casuali o comunque strettamente personali?
Figuriamoci in Iran, il Paese in cui tutti hanno una propria visione dell’universo mondo e dove saper raccontare una storia (senza necessariamente conoscerla davvero, quella storia) può allungarti la vita. È quello che fa Sharazad e le Mille e una notte, a pensarci bene, possono essere raccontate anche come un inganno sublime, una geniale presa per i fondelli. Però alla fine, nella memoria cosa rimane? La storia più vera o quella più bella?
Ragazzi sul Ponte dei 33 archiTerra di storie meravigliose e di cantastorie non sempre meravigliosi, l’Iran. Ma la realtà vera è quella che viviamo o quella che ci raccontiamo?
Conoscere e riconoscere
Tutto questo perché una premessa è doverosa: andare e conoscere è bello e facile. Più impegnativo, e a tratti doloroso, tornare e ri-conoscere una terra, una città, un Paese. Ecco, stavolta ero ripartito con questo pregiudizio autoindotto: alla fine forse mi potrei pure stancare di questo andirivieni con l’Iran, di questa passione sempre da spiegare e spesso da giustificare. Anzi, forse potrebbe essere la volta buona di farmela passare, di dire basta. “Sarà come smettere un vizio”. Chissà perché, mi tornano in mente i versi – di scarso conforto, nel caso – di Cesare Pavese mentre all’alba corro in taxi verso Mehrabad per prendere un volo per Yazd.
Il vecchio aeroporto di Teheran, oggi riservato ai voli interni, ispira quasi tenerezza. Piccolo, caotico, quasi “familiare”. Sembra impossibile che in trambusto di file disordinate, controlli approssimativi e gente che si saluta ad ogni angolo, si possano caricare passeggeri e bagagli e spiccare il volo. E invece faccio il check in alle 6.20 e alle 6.40 sono nel cielo iraniano, diretto verso sud.
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Sull’aereo sono l’unico non iraniano. Intorno a me volti e abiti mi fanno pensare che gli altri passeggeri siano quasi tutti di Yazd. Tornano a casa, forse dopo una viaggio di lavoro. Gli uomini hanno i soliti improbabili completi grigi o marroni, le donne sono quasi tutte in chador. Tutti o quasi hanno uno smartphone in mano e smanettano fino a un secondo prima del decollo.
Proprio il settore della comunicazione è uno dei più interessanti per gli investitori stranieri. Il 3G è ancora in fase di lancio e le compagnie internazionali si stanno precipitando in un mercato potenzialmente enorme. Così va il mondo: fino a qualche mese fa, qui non ci voleva venire nessuno, adesso si sgomita per un contratto. Chi disprezza compra, si dice. Ma forse è altrettanto vero che chi disprezza prima o poi vende o prova a vendere.
Ed è forse questo nuovo interesse collettivo per l’Iran a provocarmi un iniziale senso di fastidio, di rifiuto.
Già la fila per i visti in aeroporto lascia una strana sensazione. Fino a poco tempo fa le pratiche potevano durare mesi, adesso turisti e uomini d’affari pagano 50 euro ed è fatta. Meglio così, ci mancherebbe. Ma questo cambiamento repentino mi lascia perplesso e – paradossalmente – amareggiato.
Cosa è cambiato in Iran per provocare una percezione così differente? Quasi nulla, in fondo. E’ cambiato il modo di guardare al Paese perché si è aperto ufficialmente un dialogo, un confronto a livello diplomatico. Che c’era anche prima, ma non era dichiarato, non era ufficiale. E’ un cambiamento più psicologico che politico. Ma fa ancora più rabbia pensare che sia bastato così poco a dare una scossa, quando per anni e anni era un tabù anche solo nominarlo l’Iran. E’ così importante, dunque, la “narrazione”?
La differenza con gli anni di Khatami
L’Iran sta indubbiamente vivendo una fase di speranza. Ma è una speranza contenuta, lucida. Non c’è entusiasmo. La grande differenza con gli anni di Khatami è questa: allora la generazione nata negli anni della guerra stava diventando adulta, cominciava ad entrare nelle università. E portava desideri, comportamenti e aspettative nuove, del tutto inedite per la società iraniana.
TeheranOra quella generazione è divenuta adulta ed è passata attraverso le delusioni e la durezza degli anni di Ahmadinejad. C’è un retrogusto di scetticismo nella positività dell’atmosfera attuale. La fiducia nel futuro sembra ritornata, è a tempo, limitata nella prospettiva e nella durata.
Gli investitori si stanno affacciando, i turisti sono tornati, qualche posto di lavoro si sta creando. Ma non c’è nulla ancora di strutturale, di solido. Il termine per un accordo sul nucleare scade il 20 luglio. Se questa occasione dovesse fallire, difficile pensare quando potrebbe tornarne un’altra.
L’economia è per gli stupidi
Questo per quanto riguarda l’economia. Per il resto, sì, ci sono timidi segnali di apertura, nei comportamenti, nelle esternazioni pubbliche. Ma chi conosce l’Iran sa che anche nei momenti più critici della sua storia recente, questo non è mai stato un Paese chiuso. Con la presidenza Rouhani – che non è un riformista, ma un moderato, è bene ricordarlo sempre – sono usciti alla scoperto sia quelli che vogliono realmente che qualcosa cambi sia quelli che vogliono che tutto rimanga così o premono addirittura per un’interpretazione più rigida delle leggi della Repubblica Islamica. Chi prevarrà e tutto da vedere. D’altra parte, queste sono le dinamiche della politica, determinate anche dalle elezioni presidenziali del 2013, a cui parteciparono l’82% degli aventi diritto. Potere e società sono elementi distinti, ma non così distanti come li rappresentano certe cronache occidentali.
Fast food a Isfahan
Una massima di Khomeini, spesso citata nei grandi manifesti di propaganda, recita:
Eqtesad baraye khara hast. L’economia è per gli stupidi.
La rivoluzione – spiegava il fondatore della Repubblica Islamica – doveva redimere il mondo, non era stata fatta mica “per cambiare il prezzo dei pomodori”. Strano ripensare a questi slogan nell’Iran di oggi. Dove invece l’economia sembra contare più di qualsiasi altra cosa. Come spiegare, altrimenti, il fast food in perfetto stile americano aperto a due passi dal Ponte dei 33 archi a Isfahan? O la pubblicità quasi ossessiva per tablet e smartphone con i quali navigare su siti e social network ufficialmente al bando?
2 – CONTINUA
LEGGI LA PRIMA PARTE DEL REPORTAGE
Ritorno in Iran. Seconda parte
Ma, in fondo, quale Paese, quale realtà non è complessa, contraddittoria, mutevole? In alcuni casi, è il racconto (la “narrazione”, che termine abusato! Eppure non riesco ancora a disprezzarlo) ad essere semplice o banale, non ciò che viene raccontato.…
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