L’Iran torna online dopo una settimana intera di blocco. Settimana in cui le voci della protesta nata dopo il taglio ai sussidi sulla benzina si sono rincorse in modo piuttosto confuso.
Tutto è cominciato in modo improvviso e si è sviluppato con una rapidità che ha lasciato interdetti la maggior parte degli osservatori. O, almeno, quelli abbastanza onesti da ammettere di non avere gli strumenti per decodificare quello che stava realmente avvenendo in Iran.
Qui sotto è possibile seguire in tempo reale lo stato di Internet in Iran
Quello che sappiamo
Sappiamo che da sabato 16 novembre ci sono state proteste violente in molte città iraniane. Sono le stesse autorità a confermarlo e a precisare che si è trattato di una crisi grave ed estesa. Colpisce, tuttavia, la rapidità con cui si è deciso il black out di Internet. Come se l’operazione fosse stata premeditata o quantomeno preventivata.
Degli scontri circolano in rete numerosi video. Alcuni, rilanciati dal canale in lingua persiana della BBC, hanno avuto moltissime visualizzazioni e hanno scatenato un vivace dibattito in rete.
Dalle immagini e dalle scarne testimonianze, non sembrano emergere grandi assembramenti di persone, ma azioni condotte da gruppi non molto folti. L’estrema violenza che ne è scaturita è stata sorprendente e anche chi non ha assistito direttamente agli sconti, ha potuto constatarne gli effetti: banche e pompe di benzina dati alle fiamme, uffici governativi e auto distrutte.
Quello che non sappiamo
Non conosciamo il numero delle vittime. Amnesty International parla di almeno 106 morti. Le autorità iraniane, di contro, limitano il numero a quattro. Si parla di mille o duemila persone arrestate. Molti feriti non si recherebbero negli ospedali per il timore di essere individuati. Ma, appunto, il condizionale è obbligatorio. Non conosciamo nemmeno l’età media dei dimostranti e la loro estrazione sociale. Sono principalmente studenti o lavoratori?
Non reggono i paragoni con le ondate di proteste più recenti: la famosa Onda Verde del 2009 e le manifestazioni dell’inverno 2017-2018. Nel primo caso la crisi era prettamente politica, legata a elezioni contestate; esistevano dei leader riconosciuti e in piazza scesero – perlopiù pacificamente – centinaia di migliaia di persone, soprattutto a Teheran. Nel secondo caso – come stavolta – la scintilla era di origine economica. Non c’erano leader riconosciuti e ci fu un’escalation di violenza, ma non grave come stavolta. Internet non venne bloccato e circolarono molte immagini. Fu una crisi più lenta, con un andamento irregolare e concentrata in alcune città come Mashad e Kermanshah.
L’accademico statunitense Juan Cole ha suggerito piuttosto un parallelo con le proteste – pilotate da Usa e Gran Bretagna – che nel 1953 portarono al golpe con cui venne deposto Mossadeq. Una similitudine interessante – oltre che inquietante.
Altre voci, altre stanze
Non appena la connessione è stata ristabilita, il ministro delle Comunicazioni e dell’ICT Mohammad-Javad Azari Jahromi ha diffuso un video messaggio in cui prende le distanze dalla decisione di spegnere Internet per una settimana. Si scusa con gli iraniani e attribuisce il provvedimento alle Organizzazioni per la sicurezza. Le imbarazzate scuse del ministro (appena pochi giorni fa i media occidentali avevano coniato per lui il termine di “Macron iraniano“) sono un segnale evidente della difficoltà dell’esecutivo guidato dal presidente Hassan Rouhani. La vicepresidente Masoumeh Ebtekar ha provato a difendere l’esecutivo: “Il governo non è mai stato contro la libera circolazione delle idee (…) Il governo non è il solo a prendere decisioni (…) I disordini sono stati creati da gruppi che hanno approfittato delle condizioni create dalle sanzioni americane”.
Rouhani in questo momento è preso tra due fuochi: i conservatori che scaricano su di lui tutte le responsabilità della crisi economica. E l’opinione pubblica che è pronta a fargli pagare il taglio ai sussidi e la repressione della protesta.
Anche chi non ha partecipato alle manifestazioni ha subito un blackout pesante, che ha prodotto danni economici ancora tutti da valutare.
Emblematici di questo momento, i titoli di alcune testate vicine ai riformisti. Arman-e Melli parla di un prezzo politico da pagare dal governo per i suoi disastri”. Hamshahri titola sui “media vuoti della voce del popolo”. L’Associazione dei Giornalisti ha pubblicato una nota ufficiale in cui denuncia l’ordine imposto ai reporter di non pubblicare foto e notizie delle proteste. Etemad cita il vicepresidente Eshaq Jahangiri : “Ascoltiamo la voce del popolo”.


Hamshahri

In questo quadro così incerto, torna timidamente sulla scena l’ex presidente conservatore Mahmud Ahmadinejad, che da un paio di anni utilizza i social in modo sistematico. In un video, lamenta la disaffezione del popolo nei confronti della situazione generale e si rivolge, in tono pacato, direttamente a Rouhani e – indirettamente – anche alla Guida (“le altre parti del sistema”) chiedendo retoricamente: “Il Paese è forse una vostra proprietà?”.
Una “crisi organica”
Come scrive Rahman Bouzari, giornalista del riformista Shargh, siamo probabilmente di fronte a quella che Antonio Gramsci avrebbe definito una crisi organica. Una fase, cioè, in cui la classe governante non è più in grado di produrre consenso sociale. Non è cioè soltanto la questione del prezzo della benzina, ma la difficoltà della Repubblica islamica a dare risposte ai propri cittadini a livello politico, economico, ideologico e sociale.
Questa settimana di violenze e silenzio web, sarebbe la prosecuzione di quanto iniziato due anni fa e proseguito poi con una serie di fenomeni di intensità minore, legati più o meno tutti a questioni di disagio economico e occupazionale.
Tra tre mesi gli iraniani saranno chiamati alle urne per il rinnovo del parlamento. Al di là del risultato – prevedibile il successo dei conservatori – sarà importante il dato dell’affluenza, termometro da sempre molto indicativo dello stato di salute del sistema.
Sempre che nel frattempo non ci siano decisioni clamorose. Nessun presidente della Repubblica islamica si è mai dimesso. Ma la storia dell’Iran insegna a prestare sempre la massima attenzione a tutti i segnali .
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