La Storia è quasi sempre raccontata attraverso i suoi protagonisti: presidenti, rivoluzionari, dittatori. Personaggi “definiti” e quindi, in un certo senso, “definitivi”. A un nome si associa un’idea, un giudizio, che col tempo diventa difficilissimo da confutare. Pensiamo ad esempio a Nerone, bollato per secoli come imperatore folle e soltanto di recente riabilitato almeno parzialmente dagli storici.
La rivoluzione iraniana del 1979, sebbene abbia coinvolto milioni di persone, è raccontata essenzialmente attraverso due personaggi-antagonisti: lo scià Mohammad Reza Pahlavi e l’ayatollah Ruhollah Khomeini.
Nella semplificazione di questo racconto, si perdono non solo le persone dietro i personaggi, ma tutte le sfumature, le differenze talvolta decisive nel determinare il corso degli eventi. In questo senso, c’è un personaggio in particolare, che riaffiora dalle pagine di quella storia come un refuso o come un inciso che meriterebbe almeno una nota a pie’ di pagina ma viene quasi sempre liquidata in poche righe.
Sadeq Qotabzadeh (1936-82) è stato uno dei rivoluzionari più vicini a Khomeini nei fatidici mesi tra l’estate del 1978 e il ritorno in Iran nel febbraio 1979. E’ lui a consigliare l’ayatollah ad andare a Parigi dopo l’espulsione dall’Iraq in ottobre. E nella capitale francese lavora al suo fianco come interprete e intermediario con la stampa internazionale e i personaggi politici di tutto il mondo che vogliono entrare in contatto con quello che sta per diventare il nuovo padrone dell’Iran.
La fine è nota
La parabola di Qotbzadeh sarà breve e vertiginosa. Dopo la rivoluzione sarà per pochi mesi direttore della Radio Televisione nazionale, poi ministro degli Esteri durante la drammatica crisi degli ostaggi dell’ambasciata Usa, candidato alle prime elezioni presidenziali (dove otterrà un umiliante 0,34 % con meno di cinquantamila voti), infine dissidente e oppositore del nuovo regime, che lo spedisce di fronte a un plotone di esecuzione il 16 settembre 1982. Quarantasei anni vissuti intensamente, nel sogno di una rivoluzione che vivrà da protagonista all’inizio e che nel giro di pochi mesi lo fagociterà senza pietà.

Ma chi era Sadeq Qotbzadeh?
Negli anni Cinquanta è uno dei tanti studenti universitari che si oppongono al regime autoritario dello scià. Figlio di una famiglia religiosa e benestante, milita nel Fronte nazionale, Jebha-ye Melli-e Iran, la formazione politica fondato da Muhammad Mossadeq all’epoca al bando. Viene arrestato un paio di volte per motivi politici e per evitare il peggio, la famiglia lo costringe a continuare gli studi all’estero. La sua carriera universitaria, tra Europa, Canada e Stati Uniti, è piuttosto incostante. Qotbzadeh dedica infatti più tempo all’attività politica e alle ragazze che agli studi.
Secondo l’ex agente del KGB Vladimir Kuzichkin, Qotbzadeh nei suoi anni negli Usa sarebbe stato una spia al soldo dei sovietici. E’ solo una delle tante identità attribuite a Qotbzadeh sia quando era in vita si dopo la sua morte.
Negli Usa stabilisce comunque una rete di contatti molto importante con altri fuoriusciti iraniani, rendendosi protagonista di un’azione dimostrativa clamorosa: il 20 marzo 1961 riesce infatti a prendere la parola durante un ricevimento per il No Ruz organizzato a Washington dall’ambasciatore Ardeshir Zahedi e lanciarsi in una breve ma durissima requisitoria contro lo scià.
Gli anni in Medio Oriente
In seguito a questo episodio, sarà costretto a lasciare gli Stati Uniti e inizierà un periodo di continui spostamenti tra Algeria, Egitto, Siria, Libano e Iraq. Nel 1961 lascia il Fronte nazionale e aderisce al Movimento di liberazione dell’Iran (Ahżat-e azadi-e Iran) , fondato da Taleghani e Bazargan.
Negli anni trascorsi in Medio Oriente, Qotbzadeh stabilisce rapporti molto forti con Ebrahim Yazdi e Mostafa Chamran, personaggi destinati a ricoprire ruoli molto importanti dopo la rivoluzione. In Libano si avvicina al movimento Amal e riceve anche un addestramento militare. Stringe una stretta collaborazione con Musa Al Sadr, religioso sciita libanese-iraniano, misteriosamente scomparso in Libia nell’agosto 1978.
Proprio grazie ad Al Sadr, Qotbzadeh riesce a ottenere un passaporto siriano che gli permette di trascorrere diversi anni in Canada – come studente ormai piuttosto stagionato – prima di trasferirsi a Parigi.
Nell’estate 1970 incontra Khomeini a Najaf, in Iraq, dove l’ayatollah sta elaborando la teoria del Velayat-eFaqih, che sarà alla base della Repubblica islamica. Tra i due si instaura un rapporto umano molto positivo. A Khomeini piace l’energia del giovane rivoluzionario. Da parte sua, Qotbzadeh crede che Khomeini possa essere una guida morale per la rivoluzione contro lo scià, ma è convinto che non reclamerà mai un ruolo politico per sé. A detta di alcuni, continuerà a pensarlo fino ai primi mesi dopo la rivoluzione.
Una figura controversa
Qotbzadeh è stato l’unico dei leader rivoluzionari a essere processato e fucilato da quella stessa Repubblica islamica che aveva contribuito a creare. Alcuni sono stati uccisi dagli attentati (Beheshti, Rajai, Bahonar), altri sono scappati dopo essere entrati in contrasto con la fazione khomeinista (come il primo presidente eletto Bani Sadr). Ma la vicenda politica e umana di Qotbzadeh sembra quasi rispondere a un destino tragico e allo stesso tempo segnato da un atteggiamento fatalista, quasi remissivo.
Non era certo un fanatico religioso, Qotbzadeh. Nella sua formazione politica l’Islam conta ma non è centrale. Eppure, una volta al potere, sembra cedere in tutto e per tutto ai dettami imposti dalla fazione di Khomeini. Da direttore della Radio TV non esita a censurare le manifestazioni delle donne dell’8 marzo. Ed è apparentemente sordo alle proteste che si levano da vari settori della rivoluzione contro la veloce islamizzazione della società iraniana.
Si ritrova ministro degli Esteri quando Yazdi si dimette dopo che Khomeini dà il proprio sostegno agli studenti che hanno occupato l’ambasciata Usa. Sulla vicenda proverà a trattare con emissari dall’amministrazione Carter e sosterrà più volte che i repubblicani americani contattarono elementi della Repubblica islamica per evitare una soluzione della crisi che avrebbe giocato a favore di una rielezione del presidente democratico.

Durante il suo incarico da ministro, non ostenta mai sentimenti anti americani, anche se definisce un “atto di guerra” il fallito blitz tentato dagli Usa il 24 aprile 1980. Isolato e indebolito dall’estremizzazione della crisi degli ostaggi, si dimette da ministro degli Esteri nell’agosto 1980, sostituito da Karim Khodapanahi.
E’ interessante notare il giudizio contrastante che di lui daranno due ambasciatori italiani a Teheran. Giulio Tamagnini, nel suo libro La caduta dello scià, lo descrive come “arrogante e superficiale”, sebbene gli riconosca “modi civili” e una “certa preparazione in campo economico”. Francesco Mezzalama, ambasciatore a Teheran dall’ottobre del 1980 al novembre del 1983, lo ricordava invece come un “giovane simpatico e intelligente”.
Qotbzadeh viene arrestato una prima volta il 7 novembre 1980 con l’accusa di complotto contro Khomeini e la Repubblica islamica, ma è lo stesso ayatollah a intervenire per farlo rilasciare dopo tre giorni.
Mezzalama lo incontra durante un periodo di semi clandestinità e rimane colpito dalle sue parole: “Finché la guerra con l’Iraq continuerà, nel Paese non ci potrà essere opposizione”.
Viene arrestato di nuovo nell’aprile del 1982 con le stesse accuse, insieme a un gruppo di ufficiali dell’esercito e di religiosi. Qotbzadeh si dichiara innocente ma confermò – quasi sicuramente sotto tortura – l’esistenza di un complotto contro la Repubblica islamica. Il 15 settembre venne fucilato nel carcere di Evin, a Teheran, all’età di quarantasei anni.

La sua storia dimostra come la rivoluzione iraniana non divorò soltanto i suoi figli, ma anche alcuni dei suoi padri più importanti.
Un ricordo
Nel 1987 la giornalista canadese Carole Jerome pubblicò un libro intitolato The man in the mirror: A story of love, revolution and treachery in Iran in cui racconta la sua storia d’amore con Qotbzadeh e ne ricostruisce la vita e la carriera politica. Forse il suo non è uno sguardo molto obiettivo, ma il libro è una ricostruzione davvero intensa dei mesi più drammatici della rivoluzione.
Add comment