Il primo sguardo. Sarebbe bello poterlo rivivere per davvero, non solo filtrato dalla memoria. Come è stato, cosa ho visto la prima volta che sono venuto in Iran, ormai dieci anni fa? Ho l’immagine dei colori della gente dell’aeroporto di Mehrabad, dove si arrivava allora, quando non era ancora stato inaugurato l’Imam Khomeini. Non posso riviverlo, quello sguardo, ma posso provarci attraverso lo sguardo delle persone che arrivano in Persia per la prima volta. Per le quali, lo ammetto, provo sempre un po’ di invidia.
Rieccomi qui, a distanza di pochi mesi dall’ultimo viaggio. Anche questa volta accompagno un gruppo di turisti italiani. La volta scorsa eravamo all’inizio del ramadan, pochi giorni prima che lo storico accordo sul nucleare si concretizzasse. Adesso il destino vuole che la partenza avvenga all’indomani dei terribili attentati di Parigi, in un clima cupissimo di paura, destinato ancora una volta a rinfocolare le polemiche e i pregiudizi sull’Islam.
La Persia ci accoglie ancora una volta con discrezione e gentilezza, avvolta nei colori magnifici del suo autunno. Per qualche giorno saremo lontani dagli echi di odio e di paura che sconvolgono l’Europa.
Da Paese paria ad oasi di stabilità nel Medio Oriente: strano davvero il destino dell’Iran. Adesso qualcuno afferma di essersi affrettato a vedere l’Iran prima che la globalizzazione lo renda omologato e “normale”. E pensare che invece fino a due o tre anni fa, i pochi che venivano qui dicevano di volersi sbrigare prima che una guerra ne cancellasse le bellezze. In un caso o nell’altro, sembra davvero che ci sia sempre bisogno di un alibi per venire in Iran.
Ashura è trascorsa da un paio di settimane, l’inverno non ha ancora conquistato l’altopiano. Sono giornate piene di luce, l’aria è tersa e frizzante. Così come l’atmosfera generale, per le strade, nei negozi, nelle parole della gente. Non si respira entusiasmo ma un’aria positiva, costruttiva.
In Iran in pochi mesi le cose possono cambiare rapidamente. Strade ricostruite, hotel nuovi, edifici in ristrutturazione. Le sanzioni non sono ancora state rimosse e il mattone continua a essere uno dei principali canali di investimento, quasi di “sfogo” del mercato interno.
Il Paese si sta aprendo all’esterno, lo si capisce da tanti piccoli cambiamenti intervenuti negli ultimi cinque mesi. Sembrano dettagli, ma sono importanti. Ci sono nuovi hotel e in molti siti turistici, accanto ai tradizionali bagni “alla turca”, ci sono le toilet all’occidentale. Guide e cataloghi vari sono distribuiti in più lingue rispetto a poco tempo fa. Gli italiani sembrano aver riscoperto l’Iran: dai 3.000 visti turistici nel 2011, si è passati ai 14.000 del 2014.
Ma perché gli italiani vanno in Iran? Cosa vengono a cercare, cosa rimane loro dopo un tour nelle città d’arte?
Una signora del mio gruppo, dopo aver visto Persepoli e Yazd, mi dice con un filo di voce:
Non avevo mai visto un Paese con così tanta storia. E’ una cosa che mi mette a disagio.
Strano sentirlo da una persona che vive in Italia. Ma forse a sorprendere e a stordire non è tanto la storia quanto la coscienza che l’Iran ha della propria storia, della propria identità, in un mondo sempre più globalizzato.
E allora arriviamo alla questione del momento: l’Iran è pronto ad aprirsi? E aprirsi a cosa? Ai consumi, agli investimenti, agli scambi. O è altro quello che ci si aspetta?
E’ tornata l’acqua nello Zayandeh Rud di Esfahan, Ce n’è molta di più rispetto a giugno, quando era possibile per i bambini giocare nel letto del fiume senza pericolo. Anche questo è un segnale di speranza, anche se si tratta di una soluzione temporanea: l’acqua ci sarà soltanto per un mese, poi il letto tornerà a essere secco a causa della decisione di deviarne il corso per irrigare le campagne di Yazd.
Certo è bello rivedere l’acqua correre sotto gli storici ponti di Esfahan: il Khaju è affollatissimo in un fredda sera di novembre, con tanto di gara di canto sotto le arcate, come vuole la tradizione.

Dai ponti storici di Esfahan al Pol-e Tabiat, il Ponte della natura, a Teheran. E’ qui che abbiamo deciso di far terminare il nostro tour. Siamo partiti dall’antichità di Persepoli e siamo arrivati al postmoderno della capitale. Il ponte della natura è un ponte pedonale a tre livelli, lungo 270 metri, che collega due dei sette grandi parchi della capitale, l’Ab-o Atash e il Taleghani. Al di sotto, corre non un fiume ma la superstrada Modarres, una delle grandi arterie di Teheran. Inaugurato nell’ottobre 2014, il ponte si basa sul progetto di Leila Araghian, architetto donna oggi 31 enne. Cinque anni fa, quando era ancora studente dell’Università Shahid Beheshti, vinse un concorso del comune per la progettazione di una struttura di collegamento tra due parchi separati da una strada a nord di Teheran.
Lei stessa ha spiegato:
Io non volevo fosse solo un ponte che la gente avrebbe usato per andare da un parco all’altro. Volevo che fosse un luogo di ritrovo per le persone, uno spazio per riflettere, non solo passare.
E infatti sul ponte ci sono ristoranti, caffè e aree salotto. Proprio come sugli antichi ponti di Esfahan ci sono le case da the. Costruito in quattro anni, il ponte ha ricevuto uno dei premi architizer A +, un concorso di architettura con sede a New York.
Un altro membro del gruppo ammette:
Grazie per averci portato qui. Un occidentale non penserebbe mai che a Teheran possa esserci un posto simile.
(Per sapere di più sul Ponte della Natura clicca qui).
Già, l’occidente. Fa uno strano effetto passare davanti all’ex ambasciata Usa in via Taleghani, oggi museo sulle attività di spionaggio degli americani. I murales più famosi di Teheran scivolano via in modo piuttosto anonimo. ignorati dai passanti e dalle persone che aspettano l’autobus sotto la pensilina poco distante da una delle torrette di guardia del vecchio “nido di spie”. Se mai gli Usa dovessero riaprire l’ambasciata a Teheran, sarà questa la sede? E che ne sarà dei murales e del museo? Non sono domande banali se si pensa quanto la retorica antiamericana sia servita – e serva tutt’ora – a cementare la Repubblica islamica.

Poco distante dall’incrocio di via Taleghani con l’infinita Vali Asr (il viale lungo 20 chilometri che attraversa la città) sorge il centro computer Lotus. Quattro piani di delirio per i patiti di informatica: computer, smartphone, tablet delle marche più importanti. Gli iraniani sono affamati di tecnologia e gli investitori stranieri stanno correndo incontro a un mercato potenzialmente enorme.
In una vetrina, accanto a una memoria esterna, è stata posta una piccola copia del Corano. Da un negozio della Apple scorgo il ritratto del presidente Hassan Rouhani. Ora che ci faccio caso, è la prima volta in oltre due anni che vedo in un luogo pubblico una foto del presidente in carica. D’altra parte, anche del suo predecessore Ahmadinejad non si vedevano ritratti in giro. Le due icone “ufficiali” della Repubblica Islamica rimangono sempre Khomeini e l’attuale Guida Khamenei.
Poche centinaia di metri e siamo a Piazza Vali Asr dove campeggia una fotografia enorme intitolata “Storia di una bandiera”.
Si tratta di un’opera di Seyed Ehsan Bagheri in cui la celebre foto risalente alla Seconda Guerra Mondiale, viene trasformata in un atto di denuncia contro gli Usa. Sotto la bandiera a stelle e strisce, c’è infatti un mucchio di cadaveri di palestinesi, siriani e vietnamiti, vittime tutte dell’imperialismo nordamericano. L’opera è stata installata in occasione della “Giornata Nazionale della lotta contro l’arroganza globale” che si celebra ogni 4 novembre, ricorrenza dell’occupazione dell’ambasciata Usa. Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Eppure qui la retorica, filtrata attraverso il fotomontaggio, sembra farsi meno diretta. Il messaggio è chiaro ma è come se uscisse da un libro di storia, come se arrivasse con meno forza, forse meno convinzione. Sembra cioè filtrato da una rappresentazione che non è più quella diretta, militane, del murale. Qui siamo già alla sublimazione della propaganda.

A cena al ristorante del nostro hotel ci imbattiamo nella squadra di pallavolo del Payakan, in cui milita anche Valerio Vermiglio, oggi 39enne, ex capitano della nostra nazionale. In mezzo a una schiera di ragazzoni, lo riconosco subito, perché è l’unico con le braccia tatuate e l’orecchino. Quando glielo dico, sorride compiaciuto e mi spiazza:
Eh già, sono l’unico civilizzato!
Poi comincia a parlare della sua esperienza in Iran.
Sono il contrario di noi. Tutto deve essere sempre una contrattazione continua, ci mettono le ore per salutarsi, anche tra amici. e poi non hanno rispetto per le donne, non hanno rispetto per nessuno.
In piena notte, a pochi chilometri dall’aeroporto Imam Khomeini, assisto a una scena surreale. Un mullah aspetta sul bordo dell’autostrada, solo, in un tratto quasi completamente buio. Non sembra affatto preoccupato, lì, nel deserto, al freddo e al buio. Tutto è simbolo e analogia, diceva Pessoa.
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