Una separazione

Antonello Sacchetti

11/16/20112 min read

Il film dell'iraniano Asghar Farhadi

Se siete appassionati di cinema, ne avrete già sentito parlare molto bene. Se di film ne vedete pochi, andate assolutamente a vedere “Una separazione”, dell’iraniano Asghar Farhadi. È un consiglio da appassionato di cinema, non da persofilo. Il titolo originale recita “Jodaeiye Nader az Simin”, cioè, se il mio persiano non mi inganna, “La separazione di Nader da Simin”. Il che ci fornisce già una prospettiva narrativa molto netta. Nader è, in effetti, più protagonista di Simin. Ed è il suo essere separato dalla moglie, il motivo narrativo dominante. Una coppia relativamente giovane (hanno entrambi meno di 40 anni) decide di separarsi. Lui lavora in banca, lei è insegnante. Piccola borghesia, diremmo noi in Italia. Piccolissima borghesia a Teheran, dove non conta tanto che lavoro fai ma ciò che possiedi.

I due hanno in mano i visti per trasferirsi all’estero, ma lui, Nader (Peyman Moaadi) non vuole abbandonare il padre, malato di Alzheimer. Lei, Simin (Laila Hatami), si trasferisce a casa dei propri genitori. La figlia Termeh (Sarina Farhadi, figlia del regista), 11enne, rimane col padre.

Una soluzione temporanea, almeno così sembra, in attesa di chiarirsi le idee e tornare dal giudice per una decisione definitiva. Ma le conseguenze dell’amore (che finisce), sono in agguato. Per accudire l’anziano (Ali-Asghar Shahbazi), viene ingaggiata come badante la chadori Razieh (Sareh Bayat), donna religiosissima e incinta, con un marito disoccupato e sempre ostaggio dei creditori.

In questo intreccio di per sé già abbastanza complesso, interviene l’imprevedibile. Che non vi raccontiamo per non rovinarvi la visione. Diciamo soltanto che la storia rimane tirata fino alla fine. E tutto è sempre un po’ diverso da quello che sembra a prima vista. Non completamente diverso, ma giusto quel tanto che basta a far sì che abbiano un po’ tutti ragione e un po’ tutti torto.

Quello che rimane allo spettatore è una storia scritta benissimo, in cui non c’è forse una scena o una battuta di troppo. Chi scrive, ama profondamente l’Iran e la sua cultura. Ma ha un approccio molto tiepido col cinema iraniano. Non se la prendano i cultori di Kiarostami, ma di alcuni film come “E la vita continua” e “Il sapore della ciliegia”, ricordo soprattutto la noia. Diverso il discorso per Jafar Panahi e soprattutto per Farhadi, di cui mi aveva colpito moltissimo Chaharshambè surì, (2006), purtroppo inedito in Italia e il comunque intenso Darbaraye Elly (2009), tradotto (chissà perché) all’inglese About Elly in Italia.

Altri film di registi delle ultime generazioni rimangono invece terribilmente antiquati nel loro stile narrativo. Shekarchi (The hunter) di Rafi Pitts è stato spacciato all’estero come un thriller innovativo e avvincente. Ma per me è uno dei film più brutti che abbia mai visto, doppiato, oltretutto, in modo disastroso.

Farhadi è invece su un altro livello. Sobrio eppure vivacissimo. Non ci si annoia, non ci si distrae un attimo. Eppure non c’è una scena di violenza, non c’è la trovata accattivante a cui spesso ricorrono anche molti registi nostrani. È allo stesso tempo un regista ed un autore. Viene da pensare che in Farhadi ci sia tanto di quel “genio assimilatore persiano” di cui parlava il grande Alessandro Bausani.

In tutti i suoi film è evidente il confronto tra le due diverse anime della società iraniana: quella più benestante e “laica” (ma forse dovremmo dire “diversamente religiosa”) e quella povera e tradizionalista. È un confronto che il 39enne Farhadi rappresenta senza moralismi e senza furberie. Anche perché si tratta certamente di un confronto che lo riguarda personalmente, in quanto cittadino iraniano cresciuto dopo la rivoluzione e tuttora residente nella Repubblica islamica.

Ma le tensioni e i temi di questo film superano ampiamente la dimensione nazionale. È un film iraniano, ma è una storia universale. Non fatevi condizionare dal traffico di Teheran e dal foulard delle donne. La grandezza di questo film sta nel fatto che lo possiamo pure classificare come un film “iraniano”, ma dovremmo – come ha scritto Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera – riconoscerlo come un capolavoro.

Un ultimo suggerimento: se potete, vedetelo in lingua originale, coi sottotitoli. È un piccolo sforzo per apprezzare in pieno un gruppo di attori bravissimi. Tutti, dai due interpreti principali, dalla figlia undicenne al giudice, interpretato da Babak Karimi che ha probabilmente stabilito un record mondiale, doppiando se stesso nella versione italiana.

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